La casa capovolta di Elisabetta Pierini. Intervista all’autrice
Eva Bentivogli è intelligente, responsabile e coraggiosa. Eva ha dieci anni ed è figlia della buona borghesia di provincia. Peccato che nella sua esistenza, “borghese” non sia sinonimo di “semplice” come si può essere inclini a pensare. Vive in una villetta a schiera dentro la quale chi è grande si comporta da bambino, e chi è bambino è costretto a comportarsi da grande. Una casa dai rapporti capovolti. Ha una madre malata di nervi e un padre in fuga dai problemi familiari, che si rifugia nel lavoro e in una relazione nemmeno troppo segreta. Anche Eva vorrebbe scappare se non fosse per la responsabilità che sente verso la mamma. Così, quando il desiderio di evadere si fa forte, schiaccia un interruttore che le spalanca l’ingresso di un mondo illusorio, in cui prendono vita il fratello mai nato, le bambole della sua cameretta e altri personaggi immaginari.
Nel piccolo cosmo del quartiere residenziale in cui vive, Eva ha una compagna di giochi in carne e ossa, Laura Felici, una bambina che, pur facendosi coinvolgere dalla sua fantasia illimitata, la considera un po’ strana. In fondo è quello che pensa di lei tutto il paese, compresa la sua famiglia. Eva è un’outsider e senza curarsi troppo dei giudizi altrui, tira dritta per la sua strada, troppo in salita per una bambina così piccola.
La casa capovolta, in libreria dal 6 maggio 2021, è il romanzo d’esordio di Elisabetta Pierini per Edizioni Hacca, già vincitore della XXIX Edizione del Premio Calvino col titolo originale de L’interruttore dei sogni. Il linguaggio crudo e allo stesso tempo fluido, rendono talmente palpabili le emozioni dei protagonisti sia reali che immaginari, da trasportarci in una soggettiva sul loro mondo, che fa uso non solo degli occhi ma anche dell’anima.
Per meglio introdurlo abbiamo estratto alcuni brani che accompagneranno le domande ad Elisabetta.
Le bambole erano tutte in fila sullo scaffale della cameretta di Eva. Avevano capelli lunghi e occhi chiari e sorridevano di nascosto quando Eva le guardava. Gli occhi di vetro mandavano lampi azzurrini che galleggiavano nell’aria come una risata. Quando le prendeva loro si trasformavano. La loro pelle diventava morbida, gli occhi si accendevano e loro parlavano fitto con le loro voci trasparenti. La Signora, la bambola più vecchia, la scrutava con gli occhi severi, occhi che mandavano lampi taglienti. Era esigente con Eva. Non sorrideva mai.
Non dovrei farti questa domanda all’inizio dell’intervista, ma te la faccio perché la tua è una scelta narrativa che mi ha colpita: Eva, nonostante alla fantasia si possa chiedere di tutto, non evade in un mondo popolato di unicorni, dove alla fine di ogni arcobaleno c’è una pentola d’oro; si rifugia invece in un universo in cui una bambola può animarsi solo per diventare severa e giudicante. Perché Eva, nel surrealismo del suo mondo immaginario, si accontenta di un più realistico “…e vissero tutti un po’ meno infelici e scontenti”?
“Per i bambini la felicità non sta nelle pentole d’oro e nemmeno negli unicorni anche se già siamo molto più vicini, ma negli affetti. Quindi un fratello immaginario va benissimo e anche un amico immaginario rappresentato dall’uomo con la valigia marrone; meglio se uniti a un’amica reale, Laura. Un bambino ha bisogno anche di regole. La bambola che Eva chiama La Signora copre il ruolo vacante nella famiglia di Eva, di genitore che dà regole e cerca di farle rispettare. La direzione fa parte della cura dei figli ed è un aspetto fondamentale dell’educazione anche se è un ruolo che spesso può generare conflitti”.
Come dire che il sogno ad occhi aperti di qualche bambino può anche consistere nella sana normalità di una famiglia non disfunzionale?
“Il sogno fa parte del gioco di tutti i bambini: immaginare situazioni, luoghi, avventure, far parlare i giocattoli. I bambini che lo fanno meglio trascinano gli amici nei loro mondi immaginari. Questa è la normalità. Poi se la famiglia è disfunzionale e si creano situazioni di forte tensione, il sogno diventa qualcosa di diverso, l’evasione diventa una necessità, non solo un divertimento. In questo caso l’allontanamento dalla realtà ha un retrogusto amaro”.
Alla fine, Eva salì in camera sua, chiuse la porta, spense la luce. Si mise sotto le coperte vestita. La rabbia stava per essere coperta da un vago, indefinito rimorso. Si chiese perché avesse ribaltato tutto, se stava diventando anche lei come sua madre. Stava a occhi aperti e tremava, ma non riusciva a piangere. Sentì dei passi alla porta. Qualcuno aprì piano, si avvicinò al letto. “Non è colpa tua. È lui, è stato lui… Ora arriva, l’ho chiamato. Ho detto che sei stata male.” Restò immobile con le coperte tirate finché i passi non si allontanarono. Sentì una specie di sollievo.
I Bentivogli sono praticamente anaffettivi, I Felici, dal canto loro, non sembrano aver ispirato l’”Inno alla Gioia”. È una casualità, questa scelta dei cognomi antitetici, o quasi, alla realtà, o una frecciata indiretta alla vita di provincia dove l’apparenza è sempre molto diversa dalla sostanza?
“Nella famiglia Bentivogli c’è un grave problema psichiatrico ed è noto che certe malattie di quel tipo comportano anaffettività. Perciò, il problema ha una causa medica e in città sarebbe stata la stessa cosa. I Felici sono persone potenzialmente Felici anche se la loro famiglia come qualsiasi famiglia è imperfetta. La felicità a mio parere non è di questo mondo, la felicità assoluta e totale voglio dire, e la felicità relativa sta nell’accettazione della condizione umana e nel farsi carico delle proprie responsabilità, soprattutto in quelle che si sono assunte liberamente. L’inseguire i propri desideri spesso è come inseguire un miraggio nel deserto”.
“Non devi dar fastidio. Non andare sempre da quella gente”dicevano i suoi genitori (…) quando Eva usciva per andare nella casa di fronte da Laura. Se sua madre fosse riuscita a interessarsi a lei avrebbe detto la stessa cosa. A Eva, invece, quella gente piaceva, soprattutto Marta, la madre di Laura. E Laura naturalmente. Passava ore e giorni a pensare a loro, alla loro casa. I suoi genitori non erano mai d’accordo su niente e passavano il tempo a battibeccare tra loro per motivi fantasiosi, come se fossero bambole di plastica. Ma su una cosa si davano ragione a vicenda: non volevano sentir parlare di estranei in casa loro. Non volevano che lei entrasse e uscisse dalle loro case calde. (…) Se insisteva a voler frequentare o invitare qualcuno, i suoi le dicevano di non essere così noiosa. E gli estranei non diventavano mai amici o almeno conoscenti (…) e restavano sempre fuori dalla sua portata, a cucire le loro vite morbide come seta e calde come coperte. Eva restava a guardare da lontano: cosa ne faceva quella gente di quel calore, di quella morbidezza? Spesso non ne facevano proprio nulla. Vivevano come le bambole sullo scaffale. La vita era un lungo scaffale ordinato, senza guardarsi intorno e senza capire quello che attraversava il loro campo visivo, quasi avessero anche loro occhi di plastica.
Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è disgraziata a modo proprio. Se il piccolo universo di Eva ha delle disfunzionalità palesi e “certificate”, il contesto che la circonda, nonostante a lei possa sembrare sereno e rassicurante, non sembra passarsela molto meglio. Il tuo romanzo vuole essere la narrazione del mondo infelice di Eva e del suo modo di sfuggirvi, inserito in un “fondale” di provincia? Oppure è la narrazione della vita di provincia in cui ognuno è disgraziato a modo proprio, con un “occhio di bue” sulla protagonista, che col suo modo di affrontare questa realtà diventa un po’ un’eroina (almeno ai nostri occhi)?
“Questo romanzo potrebbe essere la versione realista di un altro romanzo, una specie di favola, “Il nipote di James Purdy”. Nel “Nipote” le famiglie di un piccolo paesello cominciano a spararsi dalle finestre (con il pettegolezzo naturalmente) e finiscono con l’accettarsi e l’aiutarsi creando una specie di paradiso in terra. Non per nulla il paese si chiama Rainbow.
Nel mio romanzo realista le infelicità di tutti non si riescono a fondere in quel quadro di grande incredibile bellezza che sarebbe dato dalla solidarietà e dalla tolleranza, ma ognuno resta più o meno confinato tra le mura di casa sua o peggio del suo io. La provincia in questo non è diversa dalla città, solo che in provincia uno conosce i vicini e i loro problemi, anche quelli che cercano di mascherare, e dato che la conoscenza è potere, potrebbe farci qualcosa. In effetti, alcuni tentativi ci sono”.
In Eva sembra però esserci un atteggiamento contraddittorio. È come se da una parte invidiasse, a chi la circonda, quella serena normalità che a lei è negata, mentre dall’altra vedesse lucidamente tutti i limiti delle loro esistenze.
“Credo che in una bambina sia più che comprensibile il desiderio di normalità e di un mondo di affetti, e lo sgomento di fronte al fatto che chi ha questa incalcolabile ricchezza, la vera ricchezza, se lo lasci sfuggire come niente fosse invece che tenersela stretta custodendola gelosamente”.
Eva aveva quasi dieci anni e ancora faceva giochi infantili. Laura, la sua unica amica, quando la vedeva arrivare con l’una o l’altra delle sue bambole, storceva il naso, si guardava intorno, perché non voleva che qualcuno nella via la vedesse entrare in casa sua con quella roba. Chissà cosa avrebbero pensato. Eva non capiva che ci fosse da pensare e se anche c’era, che facessero pure. Lei nemmeno la vedeva la gente per strada. Camminava con le bambole che le pendevano una di qua una di là a testa in giù spazzando l’asfalto con i loro capelli (….). Davanti al portone della casa di Laura si svegliava e la prendeva una specie di entusiasmo per il gioco che aveva in mente di fare. E il suo entusiasmo contagiava Laura in un baleno (…) Laura cascava sempre dentro al gioco dell’altra, nel mondo dell’altra. Si faceva attirare dalla gente con facilità. Non solo da Eva. Da sola stava tutto il tempo a riempirsi di noia.
Laura da un lato si lascia trascinare facilmente nel fantastico mondo di Eva, da cui è attratta; dall’altro si vergogna delle stranezze dell’amica e di quello che può pensare “la gente”. Eva invece resiste ad essere se stessa, pagando il prezzo dell’isolamento e del giudizio non benevolo generalizzato. Qual è la vera resilienza? Quella di Laura che si adegua alle aspettative sociali per sopravvivere al mondo reale? O quella di Eva che non si piega ma si rifugia in un mondo immaginario?
“Si potrebbe dire che la sofferenza alla fine è una ricchezza, perché se non ti distrugge ti dà un occhio che vede le cose più in profondità e che si infila dietro le apparenze. Eva è una bambina resiliente, mentre Laura è una bambina annoiata che vive per molte pagine in una famiglia felice, anche se non perfetta. Perciò è una bambina che ha un rapporto molto migliore con la realtà, per cui anche quando le cose vacillano, cerca rifugio nelle persone e non nei sogni”.
Spesso Eva aveva la sensazione di essere la madre di sua madre. E anche di suo padre. Si sentiva molto vecchia. Così vecchia che a volte anche la maestra la chiamava “la vecchia”.
A differenza del padre, adulto, Eva è protettiva verso la madre. Eva è anche quella che se ne frega del giudizio altrui andando avanti a modo proprio. E anche questo è un atteggiamento maturo. Però è poi la stessa che addomestica le galline, che crea mondi fantastici, che immagina con un tocco di bacchetta magica, di mettere a posto le cose. In pratica sembra l’unico vero personaggio a non aver subito la perdita di quell’innocenza che è tipica dell’infanzia. Eva è vecchia o è bambina?
“Eva è Peter Pan, è una bambina che non vorrebbe crescere, perché il ruolo che si è ritagliato in famiglia di persona matura e responsabile la spinge in una direzione che non sente propria”.
Era notte fonda. Dalle tende scostate Eva vide il pallido cerchio della luna come un viso cancellato e senza espressione, un viso che le era familiare. La via era piccola e ogni appartamento era come una casa di bambola. Ogni casa si poteva scoperchiare e aprire. (…)Si alzò in piedi sul letto, allungò la mano attraverso la finestra, prese quella giostra di case e la poggiò sul suo letto. Scoperchiò i tetti, guardando dall’alto ogni casa e ogni persona. Prese Marta e la vicina, una alla volta con la punta delle dita. Mise la vicina nella cucina del suo appartamento, vicino alla culla dove il neonato piangeva da ore senza che nessuno lo ascoltasse. Eva sentiva la stanchezza della vicina come un oggetto con un suo peso e colore. Cullò il bambino con l’unghia, lo accarezzò con la punta del mignolo, aspettò di sentirlo dormire, di sentire il suo respiro impastarsi con la notte fino a cancellarsi. Marta la appoggiò in salotto sulla sedia a dondolo a guardare fuori dalla finestra. Ogni casa a guardarla scoperchiata, era piena di polvere di luna, polvere di follia…(…). Prese il camper e lo portò indietro nel campo e liberò le galline dalle corde. Le galline si misero a razzolare…
Eva pur dotata di “superpoteri” che le permettono di arrivare a spegnere la luna col suo “becco d’uccello”, ne approfitta per aggiustare le vite di tutti, riportando semplicemente routine, senso di sicurezza.
“Nelle cose di tutti i giorni e nelle relazioni famigliari c’è una bellezza che va al di là del senso di sicurezza e che solo chi non li vive riesce paradossalmente ad apprezzare appieno. È come se la realtà ci rendesse ciechi alla poesia delle cose e delle persone vicine e sensibili solo alla musica seducente dei nostri desideri inappagati”.
Ti salutiamo con una domanda personale: “La casa capovolta” non è il tuo primo romanzo. Già alla XXVII edizione del Premio Calvino eri arrivata finalista col romanzo “Notte”. Tra il lavoro all’Università di Urbino, una famiglia numerosa che vizi con pizze, marmellate e dolci fatti in casa, le irrinunciabili escursioni in bicicletta, dove trovi il tempo, non solo di scrivere, ma anche di vincere (e quasi vincere) dei concorsi letterari così prestigiosi come il Calvino?
“Anche Eva se diventasse grande farebbe figli e marmellate a profusione, ma non rinuncerebbe mai a qualche escursione nel mondo dei sogni (magari, perché no, letteraria) a costo di non dormire la notte e di privarsi di qualche sogno vero. Non per niente è ‘figlia’ mia”.
Eva Bentivogli è intelligente, responsabile e coraggiosa. Eva ha dieci anni ed è figlia della buona borghesia di provincia. Peccato che nella sua esistenza, “borghese” non sia sinonimo di “semplice” come si può essere inclini a pensare. Vive in una villetta a schiera dentro la quale chi è grande si comporta da bambino, e chi è bambino è costretto a comportarsi da grande. Una casa dai rapporti capovolti. Ha una madre malata di nervi e un padre in fuga dai problemi familiari, che si rifugia nel lavoro e in una relazione nemmeno troppo segreta. Anche Eva vorrebbe scappare se non fosse per la responsabilità che sente verso la mamma. Così, quando il desiderio di evadere si fa forte, schiaccia un interruttore che le spalanca l’ingresso di un mondo illusorio, in cui prendono vita il fratello mai nato, le bambole della sua cameretta e altri personaggi immaginari.
Nel piccolo cosmo del quartiere residenziale in cui vive, Eva ha una compagna di giochi in carne e ossa, Laura Felici, una bambina che, pur facendosi coinvolgere dalla sua fantasia illimitata, la considera un po’ strana. In fondo è quello che pensa di lei tutto il paese, compresa la sua famiglia. Eva è un’outsider e senza curarsi troppo dei giudizi altrui, tira dritta per la sua strada, troppo in salita per una bambina così piccola.
“La casa capovolta”, in libreria dal 6 maggio, è il romanzo d’esordio di Elisabetta Pierini per Edizioni Hacca, già vincitore della XXIX Edizione del Premio Calvino col titolo originale de “L’interruttore dei sogni”. Il linguaggio crudo e allo stesso tempo fluido, rendono talmente palpabili le emozioni dei protagonisti sia reali che immaginari, da trasportarci in una soggettiva sul loro mondo, che fa uso non solo degli occhi ma anche dell’anima.
Per meglio introdurlo abbiamo estratto alcuni brani che accompagneranno le domande ad Elisabetta.
Le bambole erano tutte in fila sullo scaffale della cameretta di Eva. Avevano capelli lunghi e occhi chiari e sorridevano di nascosto quando Eva le guardava. Gli occhi di vetro mandavano lampi azzurrini che galleggiavano nell’aria come una risata. Quando le prendeva loro si trasformavano. La loro pelle diventava morbida, gli occhi si accendevano e loro parlavano fitto con le loro voci trasparenti. La Signora, la bambola più vecchia, la scrutava con gli occhi severi, occhi che mandavano lampi taglienti. Era esigente con Eva. Non sorrideva mai.
Non dovrei farti questa domanda all’inizio dell’intervista, ma te la faccio perché la tua è una scelta narrativa che mi ha colpita: Eva, nonostante alla fantasia si possa chiedere di tutto, non evade in un mondo popolato di unicorni, dove alla fine di ogni arcobaleno c’è una pentola d’oro; si rifugia invece in un universo in cui una bambola può animarsi solo per diventare severa e giudicante. Perché Eva, nel surrealismo del suo mondo immaginario, si accontenta di un più realistico “…e vissero tutti un po’ meno infelici e scontenti”?
“Per i bambini la felicità non sta nelle pentole d’oro e nemmeno negli unicorni anche se già siamo molto più vicini, ma negli affetti. Quindi un fratello immaginario va benissimo e anche un amico immaginario rappresentato dall’uomo con la valigia marrone; meglio se uniti a un’amica reale, Laura. Un bambino ha bisogno anche di regole. La bambola che Eva chiama La Signora copre il ruolo vacante nella famiglia di Eva, di genitore che dà regole e cerca di farle rispettare. La direzione fa parte della cura dei figli ed è un aspetto fondamentale dell’educazione anche se è un ruolo che spesso può generare conflitti”.
Come dire che il sogno ad occhi aperti di qualche bambino può anche consistere nella sana normalità di una famiglia non disfunzionale?
“Il sogno fa parte del gioco di tutti i bambini: immaginare situazioni, luoghi, avventure, far parlare i giocattoli. I bambini che lo fanno meglio trascinano gli amici nei loro mondi immaginari. Questa è la normalità. Poi se la famiglia è disfunzionale e si creano situazioni di forte tensione, il sogno diventa qualcosa di diverso, l’evasione diventa una necessità, non solo un divertimento. In questo caso l’allontanamento dalla realtà ha un retrogusto amaro”.
Alla fine, Eva salì in camera sua, chiuse la porta, spense la luce. Si mise sotto le coperte vestita. La rabbia stava per essere coperta da un vago, indefinito rimorso. Si chiese perché avesse ribaltato tutto, se stava diventando anche lei come sua madre. Stava a occhi aperti e tremava, ma non riusciva a piangere. Sentì dei passi alla porta. Qualcuno aprì piano, si avvicinò al letto. “Non è colpa tua. È lui, è stato lui… Ora arriva, l’ho chiamato. Ho detto che sei stata male.” Restò immobile con le coperte tirate finché i passi non si allontanarono. Sentì una specie di sollievo.
I Bentivogli sono praticamente anaffettivi, I Felici, dal canto loro, non sembrano aver ispirato l’”Inno alla Gioia”. È una casualità, questa scelta dei cognomi antitetici, o quasi, alla realtà, o una frecciata indiretta alla vita di provincia dove l’apparenza è sempre molto diversa dalla sostanza?
“Nella famiglia Bentivogli c’è un grave problema psichiatrico ed è noto che certe malattie di quel tipo comportano anaffettività. Perciò, il problema ha una causa medica e in città sarebbe stata la stessa cosa. I Felici sono persone potenzialmente Felici anche se la loro famiglia come qualsiasi famiglia è imperfetta. La felicità a mio parere non è di questo mondo, la felicità assoluta e totale voglio dire, e la felicità relativa sta nell’accettazione della condizione umana e nel farsi carico delle proprie responsabilità, soprattutto in quelle che si sono assunte liberamente. L’inseguire i propri desideri spesso è come inseguire un miraggio nel deserto”.
“Non devi dar fastidio. Non andare sempre da quella gente”dicevano i suoi genitori (…) quando Eva usciva per andare nella casa di fronte da Laura. Se sua madre fosse riuscita a interessarsi a lei avrebbe detto la stessa cosa. A Eva, invece, quella gente piaceva, soprattutto Marta, la madre di Laura. E Laura naturalmente. Passava ore e giorni a pensare a loro, alla loro casa. I suoi genitori non erano mai d’accordo su niente e passavano il tempo a battibeccare tra loro per motivi fantasiosi, come se fossero bambole di plastica. Ma su una cosa si davano ragione a vicenda: non volevano sentir parlare di estranei in casa loro. Non volevano che lei entrasse e uscisse dalle loro case calde. (…) Se insisteva a voler frequentare o invitare qualcuno, i suoi le dicevano di non essere così noiosa. E gli estranei non diventavano mai amici o almeno conoscenti (…) e restavano sempre fuori dalla sua portata, a cucire le loro vite morbide come seta e calde come coperte. Eva restava a guardare da lontano: cosa ne faceva quella gente di quel calore, di quella morbidezza? Spesso non ne facevano proprio nulla. Vivevano come le bambole sullo scaffale. La vita era un lungo scaffale ordinato, senza guardarsi intorno e senza capire quello che attraversava il loro campo visivo, quasi avessero anche loro occhi di plastica.
Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice è disgraziata a modo proprio. Se il piccolo universo di Eva ha delle disfunzionalità palesi e “certificate”, il contesto che la circonda, nonostante a lei possa sembrare sereno e rassicurante, non sembra passarsela molto meglio. Il tuo romanzo vuole essere la narrazione del mondo infelice di Eva e del suo modo di sfuggirvi, inserito in un “fondale” di provincia? Oppure è la narrazione della vita di provincia in cui ognuno è disgraziato a modo proprio, con un “occhio di bue” sulla protagonista, che col suo modo di affrontare questa realtà diventa un po’ un’eroina (almeno ai nostri occhi)?
“Questo romanzo potrebbe essere la versione realista di un altro romanzo, una specie di favola, “Il nipote di James Purdy”. Nel “Nipote” le famiglie di un piccolo paesello cominciano a spararsi dalle finestre (con il pettegolezzo naturalmente) e finiscono con l’accettarsi e l’aiutarsi creando una specie di paradiso in terra. Non per nulla il paese si chiama Rainbow.
Nel mio romanzo realista le infelicità di tutti non si riescono a fondere in quel quadro di grande incredibile bellezza che sarebbe dato dalla solidarietà e dalla tolleranza, ma ognuno resta più o meno confinato tra le mura di casa sua o peggio del suo io. La provincia in questo non è diversa dalla città, solo che in provincia uno conosce i vicini e i loro problemi, anche quelli che cercano di mascherare, e dato che la conoscenza è potere, potrebbe farci qualcosa. In effetti, alcuni tentativi ci sono”.
In Eva sembra però esserci un atteggiamento contraddittorio. È come se da una parte invidiasse, a chi la circonda, quella serena normalità che a lei è negata, mentre dall’altra vedesse lucidamente tutti i limiti delle loro esistenze.
“Credo che in una bambina sia più che comprensibile il desiderio di normalità e di un mondo di affetti, e lo sgomento di fronte al fatto che chi ha questa incalcolabile ricchezza, la vera ricchezza, se lo lasci sfuggire come niente fosse invece che tenersela stretta custodendola gelosamente”.
Eva aveva quasi dieci anni e ancora faceva giochi infantili. Laura, la sua unica amica, quando la vedeva arrivare con l’una o l’altra delle sue bambole, storceva il naso, si guardava intorno, perché non voleva che qualcuno nella via la vedesse entrare in casa sua con quella roba. Chissà cosa avrebbero pensato. Eva non capiva che ci fosse da pensare e se anche c’era, che facessero pure. Lei nemmeno la vedeva la gente per strada. Camminava con le bambole che le pendevano una di qua una di là a testa in giù spazzando l’asfalto con i loro capelli (….). Davanti al portone della casa di Laura si svegliava e la prendeva una specie di entusiasmo per il gioco che aveva in mente di fare. E il suo entusiasmo contagiava Laura in un baleno (…) Laura cascava sempre dentro al gioco dell’altra, nel mondo dell’altra. Si faceva attirare dalla gente con facilità. Non solo da Eva. Da sola stava tutto il tempo a riempirsi di noia.
Laura da un lato si lascia trascinare facilmente nel fantastico mondo di Eva, da cui è attratta; dall’altro si vergogna delle stranezze dell’amica e di quello che può pensare “la gente”. Eva invece resiste ad essere se stessa, pagando il prezzo dell’isolamento e del giudizio non benevolo generalizzato. Qual è la vera resilienza? Quella di Laura che si adegua alle aspettative sociali per sopravvivere al mondo reale? O quella di Eva che non si piega ma si rifugia in un mondo immaginario?
“Si potrebbe dire che la sofferenza alla fine è una ricchezza, perché se non ti distrugge ti dà un occhio che vede le cose più in profondità e che si infila dietro le apparenze. Eva è una bambina resiliente, mentre Laura è una bambina annoiata che vive per molte pagine in una famiglia felice, anche se non perfetta. Perciò è una bambina che ha un rapporto molto migliore con la realtà, per cui anche quando le cose vacillano, cerca rifugio nelle persone e non nei sogni”.
Spesso Eva aveva la sensazione di essere la madre di sua madre. E anche di suo padre. Si sentiva molto vecchia. Così vecchia che a volte anche la maestra la chiamava “la vecchia”.
A differenza del padre, adulto, Eva è protettiva verso la madre. Eva è anche quella che se ne frega del giudizio altrui andando avanti a modo proprio. E anche questo è un atteggiamento maturo. Però è poi la stessa che addomestica le galline, che crea mondi fantastici, che immagina con un tocco di bacchetta magica, di mettere a posto le cose. In pratica sembra l’unico vero personaggio a non aver subito la perdita di quell’innocenza che è tipica dell’infanzia. Eva è vecchia o è bambina?
“Eva è Peter Pan, è una bambina che non vorrebbe crescere, perché il ruolo che si è ritagliato in famiglia di persona matura e responsabile la spinge in una direzione che non sente propria”.
Era notte fonda. Dalle tende scostate Eva vide il pallido cerchio della luna come un viso cancellato e senza espressione, un viso che le era familiare. La via era piccola e ogni appartamento era come una casa di bambola. Ogni casa si poteva scoperchiare e aprire. (…)Si alzò in piedi sul letto, allungò la mano attraverso la finestra, prese quella giostra di case e la poggiò sul suo letto. Scoperchiò i tetti, guardando dall’alto ogni casa e ogni persona. Prese Marta e la vicina, una alla volta con la punta delle dita. Mise la vicina nella cucina del suo appartamento, vicino alla culla dove il neonato piangeva da ore senza che nessuno lo ascoltasse. Eva sentiva la stanchezza della vicina come un oggetto con un suo peso e colore. Cullò il bambino con l’unghia, lo accarezzò con la punta del mignolo, aspettò di sentirlo dormire, di sentire il suo respiro impastarsi con la notte fino a cancellarsi. Marta la appoggiò in salotto sulla sedia a dondolo a guardare fuori dalla finestra. Ogni casa a guardarla scoperchiata, era piena di polvere di luna, polvere di follia…(…). Prese il camper e lo portò indietro nel campo e liberò le galline dalle corde. Le galline si misero a razzolare…
Eva pur dotata di “superpoteri” che le permettono di arrivare a spegnere la luna col suo “becco d’uccello”, ne approfitta per aggiustare le vite di tutti, riportando semplicemente routine, senso di sicurezza.
“Nelle cose di tutti i giorni e nelle relazioni famigliari c’è una bellezza che va al di là del senso di sicurezza e che solo chi non li vive riesce paradossalmente ad apprezzare appieno. È come se la realtà ci rendesse ciechi alla poesia delle cose e delle persone vicine e sensibili solo alla musica seducente dei nostri desideri inappagati”.
Ti salutiamo con una domanda personale: “La casa capovolta” non è il tuo primo romanzo. Già alla XXVII edizione del Premio Calvino eri arrivata finalista col romanzo “Notte”. Tra il lavoro all’Università di Urbino, una famiglia numerosa che vizi con pizze, marmellate e dolci fatti in casa, le irrinunciabili escursioni in bicicletta, dove trovi il tempo, non solo di scrivere, ma anche di vincere (e quasi vincere) dei concorsi letterari così prestigiosi come il Calvino?
“Anche Eva se diventasse grande farebbe figli e marmellate a profusione, ma non rinuncerebbe mai a qualche escursione nel mondo dei sogni (magari, perché no, letteraria) a costo di non dormire la notte e di privarsi di qualche sogno vero. Non per niente è ‘figlia’ mia”.