Non è vero ma ci credo. Perché guardiamo i reality? La parola a Crepet e ai telespettatori
Capita che un giorno sei a casa con l’influenza e accendi la TV. Compaiono sullo schermo due gemelli bellocci, alti e muscolosi, che subito ritieni meritevoli di una seconda occhiata se non di un approfondimento sul loro ruolo televisivo. Concedi occhiata e approfondimento e ti ritrovi catapultato negli ingranaggi del programma. Scopri così che quello dei due con l’aria da damerino è un agente immobiliare. L’altro, capello bicolore, camicia da boscaiolo canadese e approccio più muscolare alla vita, è invece un impresario edile. Il format funziona così: una famiglia cerca casa e si rivolge ai gemelli. Ha un budget a volte alto, a volte limitato, con cui vorrebbe comprare una casa chiavi in mano. Viene proposta, in prima istanza, una villa pronta all’uso, più grande dell’Escorial, piscina olimpionica riempita di acqua Perrier, quando non di Laurent Perrier, divani in pelle umana, cucina da hotel anche se l’unica cosa che serve all’americano medio è un microonde dove scaldare i ravioli in lattina. Marito e moglie, eccitati, hanno già la penna in mano, pronti a firmare il compromesso, quando quei mattacchioni dei gemelli li informano che il prezzo è ben oltre le loro possibilità. Perché gliel’hanno proposta? Solo per dimostrare che con il loro budget, l’unica casa che si possano permettere è una da ristrutturare. A incaricarsi del restauro sarà ovviamente il fratello casual. Noi tutti, anime semplici, come del resto immaginiamo che faccia la coppia, siamo portati a pensare che le alternative proposte dal gemello broker avranno le stesse dimensioni del castello appena mostrato, ma in versione fatiscente; niente che una ristrutturazione sapiente ma alla loro portata, non possa trasformare in qualcosa di equivalente. Osserviamo invece l’allegra comitiva partire per un lungo pellegrinaggio tra varie tipologie di immobili, dagli atri muscosi e dai bagni cadenti, ma tutti di dimensioni contenute. E già questo sarebbe il primo pacco, ma la coppietta felice non sembra scomporsi per quei 600 metri quadri mancanti. Gira gira, screma screma, due case sopravvivono alla selezione; mai una di più né una di meno. E con l’aiuto di un programma 3D, il gemello operoso mostra alla coppia una simulazione di come risulterebbero entrambe, una volta ristrutturate. Ai nostri fiduciosi colombi, nessun campanello di allarme suona nemmeno quando, sullo schermo, compare la ristrutturazione di tre sole stanze (cucina, sala da pranzo e salotto), su un totale di due piani di casa. E neanche a noi che confidiamo comunque in una ristrutturazione integrale. La simulazione mostrata è stupefacente per entrambe le ristrutturazioni, e alla coppia non viene richiesto altro che rimanere stupefatta. Neanche a dire che, qualunque sia l’entità dei lavori da fare, il loro costo coincide sempre col budget residuato dopo l’acquisto della casa. Tempo di consegna? Lo stesso che un impresario nostrano impiega per fare un preventivo. Dopo aver visto le due diverse possibilità, la coppia è lacerata dall’indecisione, ma ha solo tre minuti per scegliere la casa della vita. Quasi lanciando il dado, i due passano il Rubicone, salvo scoprire, sull’altra sponda, che qualcuno ha già fatto un’offerta superiore alla loro. Pare infatti che Oltreoceano, le case non se le aggiudichi il primo che accetta il prezzo richiesto, ma chi offre di più. Un normale acquirente, a questo punto, considererebbe risolto il dilemma che lo aveva precedentemente consumato, ripiegando sull’altra casa. Non è così per i nostri, che si incaponiscono a volere proprio quella, e rilanciano, rilanciano e rilanciano, finché non la ottengono. Per fortuna il gemello imprenditore riuscirà a fare tutti lavori promessi rimanendo nel budget ormai quasi dimezzato. Anche a non avere un dottorato ad Harvard, il sospetto che il bel muratorino avesse gonfiato il primo preventivo viene. Ma nemmeno questo dubbio turba la serenità della coppia, che nonostante i 200 kappa sborsati per il solo restauro, si presta molto volentieri a fare demolizioni e altri lavori ingrati per recuperare un po’. Man mano che le demolizioni procedono, emerge che i precedenti proprietari avevano fatto l’impianto elettrico con cavi di rafia, che la cucina è invasa dalla muffa tossica, che l’amianto è in ogni dove e le fondamenta stanno cedendo. Scopriamo così che nella patria dei diritti dei consumatori, dove ti risarciscono se metti il gatto nel microonde, solo perché il produttore si era dimenticato di scrivere di non farlo, non esiste evidentemente garanzia contro i vizi occulti su un bene durevole come la casa. Il gemello ardimentoso non si lascia scoraggiare da queste piccolezze, e qualunque sia la lista delle cose da fare e col budget risicato che si ritrova, se sei settimane alla consegna ha detto, sei settimane saranno. Anzi, in quelle sei settimane, tra un colpo di mazzetta e uno di rullo, trova anche il tempo di fare da babysitter ai figli della coppia, qualche partitella basket e allestire uno spettacolo di magia degno del circo Barnum. Il giorno dell’anelata consegna i nostri due colombi arrivano tutti vestiti da cerimonia. Nemmeno il tempo di aprire uno spiraglio dell’ingresso, che già le loro espressioni somigliano a quelle dei pastorelli di Fatima e le lacrime scendono copiose sul volto di lei. Non ce n’è una che non pianga. Che poi considerando che avevano visto la casa due giorni prima, quanto può mai essere cambiata per giustificare una tale apertura di cateratte? E qui arriva la sorpresa anche per noi, ingenui telespettatori, convinti che i due fratelli avessero simulato il restauro del solito trittico cucinasaladapranzosalotto, esclusivamente per ragioni di tempistiche televisive, ma sicuramente non avrebbero lasciato le cose a metà. Quando notiamo invece, che l’inquadratura salta direttamente dalla porta d’ingresso agli ambienti visti nella simulazione, capiamo che nonostante un living da copertina di Dwell, il resto della casa resiste immutata con gli atri muscosi e coi bagni cadenti.
I gemelli se ne vanno ma le ristrutturazioni continuano. Nel programma successivo, e relativo spin off infatti, troviamo solitamente una coppia che una casa già ce l’ha, ma che presenta improvvisamente un sacco di problemi: la famiglia si è ingrandita e la casa si è ristretta, la lavanderia di cui hanno sempre fatto a meno è diventata indispensabile, la cucina è troppo lontana dalla sala giochi dei bambini. Cose così. Uno dei due membri della coppia vuole traslocare. L’altro è affezionato alla casa e non la vuole mollare. In loro soccorso, ma con intenti diversi, intervengono due agenti immobiliari (uno per programma) che al pari dei gemelli precedenti sembrano prodotti dalla Mattel, e due bullette acide nel ruolo di designer. Gli agenti immobiliari spingono le coppie a cambiar casa, mentre le designer vogliono ristrutturarla per adeguarla alle mutate esigenze. Gli sventurati clienti non sanno, però, che le due sono le Jessica Fletcher dell’edilizia; nel senso che dove arrivano si scatenano le sette piaghe d’Egitto. Non, sette piaghe per sette case, ma tutte e sette in contemporanea ad ogni puntata: il tetto che aveva retto metri cubi di neve per anni, al solo vederle imbarca acqua con due gocce di rugiada. L’unica termite del circondario, chiama a raccolta tutto il parentado, e insieme si buttano su qualsiasi struttura in legno disponibile come sul buffet dell’ultimo all you can eat rimasto. Gli scarichi si riempiono di radici; un fantomatico ispettore che nessuno vede mai, ma di cui si intuisce la propensione allo stillicidio, passa un giorno si è uno no, trovando ogni volta una nuova possibile violazione ai regolamenti edilizi. In una puntata si è addirittura rotta una piscina, e l’acqua allagava il giardino del vicino distante più di 300 metri. Neanche a dirlo, a ogni nuovo imprevisto, le designer menagramo devono depennare qualcosa dalla lista delle stanze da ristrutturare riducendola al lumicino. Una tale potenza iettatoria, unita alla mancanza di competenza nel prevedere catastrofi in fase di preventivo, farebbe salire il crimine anche al Dalai Lama. Ma non ai nostri imperturbabili protagonisti. Nel frattempo gli agenti immobiliari Big Jim 1 e 2, mostrano alla coppia tre case: la prima proprio non va. La seconda è così così (oppure le rare volte in cui non ha niente che non vada, viene venduta prima che i due possano fare un’offerta). La terza, anche quando presenta i difetti riuniti delle proposte 1 e 2, viene considerata perfetta perfino dal coniuge recalcitrante. In concomitanza con quest’ultima proposta, casualmente anche la casa dei nostri ha completato la ristrutturazione e arriva il giorno della grande decisione: tenersi la casa (minimamente) ristrutturata, oppure lasciarla per l’ultima visitata? Sempre vestiti coi panni della festa, sempre dotati di vista laser, perché già prima di oltrepassare la soglia si osservano esclamazioni di meraviglia e pianti a dirotto, alla fine del giro i nostri (senza mai consultare i figli anche quando sono grandicelli) si lanciano in una discussione sull’opportunità di restare o andarsene, con tanto di suspense sulla decisione presa. Che proprio suspense non sarebbe visto che è sempre l’esatto contrario di quello che la loro ultima considerazione ad alta voce lascerebbe presagire. E quando ormai guariti dall’influenza torniamo in ufficio, mentre benediciamo l’inventore della Smart TV, non vediamo l’ora di tornare a casa per guardarci la registrazione dei gemelli bellocci o delle designer iettatrici. Perché si dica quel che si dica, in pochi giorni sono diventati parte della nostra famiglia, e per surreale che sia quello che vediamo, noi crediamo che sia vero.
Cosa ne pensa lo specialista: l’intervista a Paolo Crepet
Se fin qui abbiamo preso in esame la tipologia meno complessa di reality, i format usciti in questi decenni sono centinaia, diversissimi tra loro. Quello che però li accomuna tutti è il grado di credibilità che siamo disposti ad attribuire loro, nonostante le evidenti contraddizioni con la realtà.
Cosa ci attira tanto in questo tipo di programmi? Ne abbiamo parlato col Dottor Paolo Crepet, psichiatra e sociologo e con gli spettatori dei format più noti.
Dottor Crepet, qual è il motivo che ci spinge a credere che quello che vediamo in questi programmi sia vero, nonostante gli indizi, se non addirittura le prove che dimostrano il contrario, ci siano tutti? Mentre con la fiction, per quanto coinvolgente, una volta finita torniamo alla realtà, nel caso dei reality continuiamo a credere di aver visto uno spaccato di vita anche dopo aver spento la TV.
È evidente che non c’è quasi niente di spontaneo in questi programmi, che si tratta di “fiction” con dietro un copione, per le quali si fanno dei casting con dei criteri precisi, in cui le liti, gli amori e tutto quello che succede, è studiato a tavolino. Le persone hanno bisogno di avere dei sogni, vogliono credere che quello che vedono succeda anche nella vita.
È però vero che in molti di questi reality non è che succedano cose clamorose come invece si vedono nei film. Qual è l’appeal che ci fa mettere la vita in pausa per seguirli?
La TV rende personaggi anche le persone qualunque. Quello che fa il calzolaio nella sua bottega non interessa a nessuno. Quello che fa il calzolaio in TV diventa automaticamente interessante.
Alcuni format rappresentano situazioni di estremo disagio: grandi obesi, persone con deformità fisiche…La televisione sta morendo perché è surclassata dai social, Soprattutto durante la pandemia questi sono diventati appannaggio anche delle persone anziane che hanno sempre costituito lo zoccolo duro del pubblico televisivo. Così, prima di esalare l’ultimo respiro, con un po’di cinismo la televisione sta tentando di fare qualcosa che stupisca per attirare dei pezzi di popolazione, e continuare a fare audience utilizzando situazioni estreme.
Abbiamo guardato i primi reality con curiosità ma con l’idea che non sarebbero durati a lungo. Invece a distanza di oltre venti anni continuano a riscuotere un grande successo e a popolare i palinsesti delle principali reti, quando non dispongono addirittura di un canale dedicato.
Di reality se ne fanno tanti perché costano poco. Se così non fosse se ne farebbero pochi. Sono pieni di personaggi che farebbero qualsiasi cosa pur di andare o tornare in TV. Il costo ridotto permette di avere un reality per ogni esigenza. Riproducono il mondo spacchettato, dove chiunque può trovare uno spazio in cui sentirsi rappresentato.
La parola agli spettatori
Partiamo dalla considerazione che i reality non sono tutti uguali e che ognuno ha un proprio pubblico particolare, sensibile a un certo appeal piuttosto che ad un altro. Nel mare magnum dei tanti format abbiamo individuato quattro categorie principali, con caratteristiche abbastanza omogenee, anche se alcuni reality sono piuttosto trasversali e potrebbero inquadrarsi in due o più categorie.
Reality in cattività
È il padre di tutti i reality. Se, nella percezione collettiva, l’apripista è stato il Grande Fratello, il primo reality apparso in Italia risale al 1995. Si intitolava Davvero e seguiva la vita di sette studenti in un appartamento di Bologna. In questo tipo di reality i protagonisti si trovano in una situazione di convivenza forzata. Che sia in una villa coi confort di un resort, su un’isola deserta senz’acqua né cibo, o in fattoria a spalare letame, pur sempre di cattività si tratta. Sarà colpa del copione, sarà colpa della cattività, ma la cattiveria certo non manca. Quello che colpisce di più in questo tipo di format, è infatti la conflittualità tra i singoli protagonisti o tra le diverse alleanze che si costituiscono per confliggere tra loro. Solitamente prevedono gare, con relativi premi e punizioni, che riescono a scatenare il peggio dell’essere umano.
Reality di makeover
Caratteristica comune a questa categoria di reality è il passaggio, da una situazione in apertura più o meno critica, a una (auspicabile) situazione di “riscatto”, passando attraverso un percorso irto di ostacoli. Lo schema, a ben vedere, coincide con quello classico della favola. Al format basico vivisezionato in apertura (casa brutta-ristrutturazione con ostacoli- casa bella), dei reality sulle ristrutturazioni, se ne affiancano di più complessi in cui la produzione del programma aggiunge degli elementi forti per aumentare l’audience. Prendiamo ad esempio quei format che prevedono il soccorso a un’attività fallimentare, come Hotel da incubo o Cucine da incubo nelle versioni locali o internazionali. Qui, accanto alla ristrutturazione fisica e organizzativa dell’attività, a tenere banco sono soprattutto i “cazziatoni” pesanti dei vari Gordon Ramsay, Cannavacciuolo e colleghi. Elementi ancora più “forti” caratterizzano quei format che si basano su delle problematiche fisiche dei protagonisti, come Vite al limite, Malattie imbarazzanti, La dottoressa schiacciabrufoli. La spettacolarizzazione dell’handicap. Sappiamo, dalle notizie di cronaca, che per contratto i protagonisti sono costretti a farsi riprendere in situazioni assolutamente degradanti e imbarazzanti, come se per il pubblico, o almeno buona parte di esso, fosse quella la molla che fa scattare l’interesse.
Reality di coppia
Qui i format sono talmente tanti e talmente trasversali da avere un pubblico molto eterogeneo: alcuni sono a metà tra il dating show e il reality in cattività, altri si svolgono esclusivamente in cattività, altri più liberi; ci sono coppie che si formano, altre che si lasciano, altre ancora che si tradiscono. È solo uno spiare nelle relazioni altrui da un buco della serratura largo 50 pollici o c’è altro?
Reality sui disturbi ossessivo-compulsivi
Ultimamente non sono tra le categorie più popolari ma ciclicamente ritornano e sono molto seguiti. Ci sono quelli in cui i protagonisti collezionano coupon e si comprano l’intero supermercato con pochi dollari, riempiendo la casa di cose che non useranno mai; ci sono quelli coi germofobici che dopo aver pulito a lucido, più e più volte la propria casa, si sfogano su quella di qualche accumulatore seriale, dove nemmeno i Nas metterebbero piede; oppure quelli con gli emuli di zio Paperone che leggono il giornale raccattato in aeroporto pur di non tirar fuori una monetina e vivono più o meno a scrocco anche quando hanno un buon lavoro.
Quali sono gli elementi di appeal di ogni categoria? Dopo lo specialista diamo la parola agli spettatori.
Franca è un medico, oltre che una lettrice e viaggiatrice compulsiva. E quando non cura, non legge e non viaggia, guarda volentieri i reality. Tutti nella categoria dei makeover. “Ho ristrutturato diverse case e vedo questi programmi un po’ come dei tutorial. Mi piace vedere come ridisegnano gli spazi, le soluzioni geniali, l’home staging finale. Devo dire che col tempo mi hanno un po’ stufato, perché ho l’impressione che girino sempre le stesse due o tre case per tutti i programmi. Guardavo, con delle remore perché certa ostentazione di questi tempi è un po’immorale, un reality di cui non ricordo il titolo, dove si vedevano delle case bellissime da miliardari. Ovviamente in quello non è che si potessero sfruttare troppe idee, perché si era su un altro pianeta. Un altro format che guardo è Piedi al limite. Il mio è un interesse personale e professionale. Mi hanno praticamente ricostruito i piedi, quindi mi identifico molto con i protagonisti e coi loro problemi. Come medico mi piace anche rilevare, in questo campo, la superiorità della chirurgia italiana molto più evoluta di quella statunitense”
Angelica è una guida museale che durante il prim lockdown in mancanza di turisti da accompagnare, ha scoperto il genere e non lo ha più lasciato. Unica eccezione è il periodo natalizio, in cui rinuncia volentieri a un reality in favore di qualche maratona di quei film buonisti, dove alla fine i cattivi sono redenti e tutti vivono felici e contenti. Anche lei preferisce i format sulle ristrutturazioni. “Come motivazione millanto un acceso interesse per il design di interni, che in realtà ho solo in maniera tiepida. Oltretutto le soluzioni proposte in questi programmi non sono sfruttabili per mancanza di metri quadri; senza contare che, dopo averne viste un paio, non c’è più molto da scoprire, dato che si assomigliano tutte. Io credo di essere una malata di happy ending applicato a quella che, ci illudiamo sia la vita reale: nella casa diroccata che si trasforma, vedo probabilmente la storia del brutto anatroccolo. Altro programma che guardo è “Vite al limite”, ma solo le puntate a lieto fine, dato che non sempre sono storie di successo. Così sfrutto il gap cronologico di programmazione con gli Stati Uniti, per andare a vedere in anteprima se il protagonista della puntata è dimagrito. Se ha perso pochi chili non lo guardo perché mi fa sentire frustrata. Credo però che nella visione di questo tipo di reality ci sia anche una perversa forma di autocompiacimento. Non la cattiveria del body shaming (almeno per me); piuttosto quel meccanismo che, in un confronto di quella portata, ti fa sentire dalla parte “giusta” del mondo, e quindi normale e fortunato, anche col chiletto di troppo che solitamente maledici. Poi sicuramente ci saranno anche quelli che li guardano per sfottere i protagonisti; sul fronte opposto, invece, ho conosciuto un paio di persone che sono state motivate ad iscriversi in palestra proprio per non finire così. Quindi a modo proprio, ha anche un’utilità sociale”.
Laura è scrittrice e giornalista. Ha una vita piena di impegni e ogni tanto la sera le capita di guardare qualche reality: quelli in cattività, quelli di makeover, quelli di coppia e anche uno sui disturbi ossessivo-compulsivi . Cosa è che l’attira delle diverse tipologie? “Partiamo da quelli di convivenza forzata. Innanzitutto c’è l’elemento gossiparo che è in ciascuno di noi, la curiosità di vedere questi personaggi famosi, che, finto o vero che sia tutto quello che vediamo, lì vengono fuori per quello che sono. Perché puoi inventare fino a un certo punto, ma quando sei sotto i riflettori per tutto il tempo qualcosa di vero viene fuori per forza. In secondo luogo, soprattutto per chi come me durante il giorno è molto impegnato a livello mentale, quando arriva la sera ha voglia di staccare un po’. Perché non preferire un film leggero? Guardo anche quelli ogni tanto, e anche serie tv e film d’autore, ma nel film sappiamo che è 100% fiction. Nel reality, anche se si dice che ci sia in parte un copione, dopo un po’ quel copione non riesci più a percepirlo e sei persuaso di vedere qualcosa di reale. Poi, per chi come me si occupa di cultura, c’è anche un interesse antropologico, l’osservare le dinamiche che si sviluppano tra le persone in una situazione di cattività e di cosa viene fuori dell’essere umano, come si fanno le scarpe tra di loro. Si crea anche una sorta di empatia coi protagonisti. Guardi chi ti assomiglia di più, chi ti ricorda qualcuno, chi ti sta più simpatico; ti viene da pensare: “Come mi sarei comportato io, come avrei reagito al suo posto?”. Ti affezioni ai personaggi sconosciuti che diventano famosi man mano che va avanti il programma. Per evitare la noia, in questi reality si creano delle dinamiche private forti (quelli che litigano, quella che tradisce il fidanzato davanti al mondo), conflitti tra i protagonisti in cui prendi sempre le parti dell’uno o dell’altro e a quel punto la loro storia diventa la tua. Ultimamente, per fortuna, hanno fatto marcia indietro sul politically correct, che stava rendendo i reality ridicoli, molto poco spontanei e credibili e stava stufando un po’ il pubblico. Passiamo invece a un altro reality che guardo sporadicamente, Vite al limite. In questo caso c’è una curiosità un po’ morbosa, non tanto per il disagio umano, ma per capire fino a dove ci si può spingere a farsi del male. E c’è anche una forma di attrazione-avversione che ti porta a voler sapere come diventano, come si riducono quelle persone. C’è quasi incredulità. Anche in questo caso si crea un’empatia, e quando cominci a seguirli, poi ti capita di andare a vedere che fine hanno fatto, come sono ora; e ci rimani male quando scopri che alcuni sono morti. Quando invece scopri che altri sono rinati e si sono rimessi in forma, sei proprio felice. Passando alla categoria dei reality di coppia, mi è capitato di guardare, ad esempio, la prima edizione di Matrimonio a prima vista. Ero curiosa e anche un po’ incredula, perché il matrimonio c’è veramente, a quanto risulta anche dalle notizie di cronaca, ed è praticamente un matrimonio combinato, cosa che per la nostra mentalità occidentale è abbastanza pazzesco. Anche in questo tipo di reality scatta un po’ il meccanismo dell’identificazione, che porta a chiederti: “Chissà chi mi arriva adesso? E se non mi piace?”. Successivamente ti affezioni e inizi a fare il tifo o a dispiacerti per le varie coppie. Nella categoria dei disturbi ossessivo-compulsivi, guardavo Io e la mia ossessione che adesso non fanno più, dove ogni puntata riguardava un’ossessione o compulsione diversa. In questo caso c’era una curiosità antropologica e anche una sorta d’inquietudine nel vedere quante patologie esistono nel mondo. Allo stesso tempo, però, c’era anche un aspetto confortante, perché scoprire le stranezze degli altri ti fa sentire meno sbagliato e strano”.
Lapo è uno scrittore, un po’ britalian di famiglia e quindi frequentatore fin da ragazzino del mondo anglosassone. Proprio i tempi del college negli Stati Uniti lo hanno iniziato alla passione per i reality, quando ancora da noi la parola era associata, al massimo, al ricordo della colonna sonora de “Il tempo delle mele”. Tanti dei format che cita non hanno mai toccato il suolo italico. Guarda tutte le tipologie, anche se preferisce quelli di coppia; ma quello per cui, potrebbe rinunciare a un’uscita con la Belen nazionale è Temptation Island. “Quello che mi piace di più sono le corna che si fanno. Le corna sono uno dei temi più divertenti della TV. A Londra seguivo “Jeremy Kyle show”, un reality su persone che dovevano scoprire se i propri figli legittimi fossero anche figli biologici. E anche lì venivano fuori tante storie di corna. In Temptation Island i personaggi sono esilaranti. Vengono selezionati attentamente, in modo che risultino interessanti e coinvolgenti già mettendoci “del loro” e semplificando il lavoro agli autori. Corna a parte nei reality di coppia quello che mi interessa è la rappresentazione dell’esistenza, perché l’aspetto sentimentale è quello più paradigmatico della nostra vita. E questo in Temptation Island emerge più che in altri programmi. Chi meglio di due che hanno un rapporto sentimentale, che qui viene messo in un frullatore, che poi sia vero o meno – e in gran parte spesso lo è per salvaguardare il reality – possono esemplificare gloria e miseria della condizione umana? Guardo anche i reality sui disturbi ossessivo-compulsivi e lì c’è un po’ un guilty plesure, una curiosità morbosa nel vedere come possano ridursi le persone. Che poi non è una curiosità fine a sé stessa, perché incarnano le nostre peggiori paure, facendo scattare un meccanismo di identificazione. Non per niente, quello che guardavo di più era quello degli accumulatori seriali, in cui altri personaggi che avevano la patologia contraria, andavano a pulire le case dei primi. Già vedere il processo di pulizia di queste case piene di sacchetti, spazzatura e sporcizia secolare era fantastico e liberatorio. Però per una persona come me, che normalmente è molto ordinata, ma che qualche volta magari si perde un po’, scatta il timore, anche ingiustificato, di potersi ridurre così. Quando ero all’estero mi piaceva molto guardare anche i format di makeover soprattutto sulle auto. Uno in particolare, che vedevo a Londra, dove due meccanici inglesi andavano a cercare delle auto da sistemare, rivendere e fare l’affare della vita. E lì non era solo la mia passione per i motori a tenermi incollato allo schermo, perché va detto comunque che si imparavano tante cose: era tutto il giochino della ricerca, della rimessa a nuovo dell’auto, dell’interazione tra i due meccanici che erano veramente dei personaggi a far scattare l’identificazione. Invece negli Stati Uniti, sempre sullo stesso tema guardavo Pimp my Ride, in cui dei “catrami” conciati da fare paura, con cumuli di cartoni di pizze sotto al sedile, venivano trasformati in auto molto particolari (diciamo pure kitsch). Però qui non c’era lo stesso meccanismo d’identificazione che avevo con l’altro, ma solo l’interesse per i motori.
Terminiamo con Vanny, impiegata. Un solo reality ma vissuto intensamente. “Sono appassionata di Temptation Island, il reality che tutti negano di vedere (perché, poi?) ma che ha un’audience più alta della finale di Coppa. Lo guardo perché è una prova del nove, e penso che ogni coppia dovrebbe avere la propria Temptation Island per capire se l’amore che stanno vivendo è vero, o se alla prima occasione si è disposti a tradire. Osservo come si rapportano tra loro i protagonisti – che sono quasi sempre coppie un po’ in crisi, perché è chiaro che, se la tua relazione va bene non vai mica lì – e in un certo senso sono sollevata nel vedere che più o meno abbiamo tutti gli stessi problemi. Anche se in definitiva, non è che a me personalmente sia servito più di tanto a risolvere la mia situazione, perché le soluzioni sono soggettive e io ho risolto da sola. Però ti illudi di trovarle lì, dato che ti identifichi con i protagonisti. Un’altra cosa che ti fa capire, questo reality, è quanto, dal di fuori delle situazioni, siamo tutti bravi a dire agli altri come comportarsi, ma quando le cose ti toccano da vicino, sei molto più disorientato e fai il contrario di quello che consiglieresti ai protagonisti se chiedessero il tuo parere. Certo, mi piace quando si fanno le corna. Movimentano un po’ la “trama” (e alcuni se le meritano anche). Mi piace anche che a differenza dei reality a eliminazione, qui non ci sia tutta quella cattiveria. Anzi, c’è molta solidarietà tra i protagonisti e questo è rassicurante.”