Smart working, luci e ombre. Il lavoro agile migliorerà davvero la nostra vita?
Se n’è parlato tanto in questi mesi, il più delle volte impropriamente, utilizzando il termine “smart working” per definire soltanto il lavoro da remoto. Quello di smart working è invece un concetto che coinvolge una rivisitazione più ampia della classica concezione del lavoro, per adeguarla alle trasformazioni in atto a livello sociale e tecnologico. Di questa rivisitazione, il telelavoro è l’aspetto sicuramente predominante ma non l’unico.
È innegabile che professionalità creative e intellettuali stiano sostituendo, poco a poco, quei lavori che possono essere affidati alle macchine o a sistemi di intelligenza artificiale. Aggiungiamoci che la digitalizzazione ha permesso cose inimmaginabili fino a poco fa . Ecco allora che il classico impegno “nine to six” con il cartellino da timbrare, o la stessa idea fisica di ufficio con scrivanie, pareti o divisori, e sale riunioni, diventano riduttivi. Non si produce più nella solitudine del proprio cubicolo, ma lo si fa in team, o anche individualmente in luoghi non convenzionali. Oppure con sedute di brainstorming, magari davanti a un aperitivo. Anche gli spazi di lavoro collettivi vengono ridisegnati. Le aziende più “illuminate” affiancano huddle room a open space, spazi di coworking e addirittura sale giochi, dove tra una partita di ping pong e l’altra prendono forma grandi progetti.
La stessa giurisprudenza, nel definire lo smart working, ha per una volta abbandonato la rigida terminologia burocratica per adottarne una molto più “agile”. Lo indica infatti come “una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, caratterizzato dall’assenza di vincoli orari o spaziali e un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi stabilita mediante accordo tra dipendente e datore di lavoro; una modalità che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, favorire la crescita della sua produttività”.
Già da ben prima dell’emergenza causata dalla pandemia infatti, e precisamente a partire dalla Legge 81/2017, lo smart working era stato normato, con lo scopo di favorirne la diffusione, sia tra i dipendenti di aziende private che nella pubblica amministrazione. Questo non aveva portato però alla rivoluzione sperata, e la sua adozione è sempre rimasta molto circoscritta, spesso limitata al semplice aspetto del lavoro da remoto per un giorno a settimana (di solito il venerdì), quasi fosse una sperimentazione a termine per compiacere la divinità dell’innovazione.
Va detto che la declamata assenza di vincoli di orario è, molte volte, solo teorica, soprattutto per chi lavora in team, e il raggiungimento dell’obiettivo necessita di un coordinamento tra colleghi, di solito in orari “condivisibili” per convenzione: non possiamo chiamare il collega alle 3 di notte, a meno di non sapere che è anche lui un nottambulo.
Più attuabile invece, in presenza di tecnologia e strumenti di lavoro adeguati, è svincolarsi dalla necessità di operare dall’ufficio; dello smart working questa è la parte più “visibile” e più capace di fare la differenza tangibile per il futuro modo di lavorare.
Se fino a pochi mesi fa lo smart working stentava a decollare, all’improvviso sembra che tutte le aziende vogliano estenderlo urbi et orbi in maniera permanente o quasi, anche per quelle professionalità per le quali, pur essendo materialmente possibile, non rappresenta la scelta migliore.
I vantaggi dello smart working
Ma quali sono i benefici potenziali dello smart working adottato in maniera meno timida rispetto al passato? Sicuramente i grandi vantaggi che andrebbero a favore di tutti, lavoratori e non, sarebbero quelli ambientali in senso lato. È evidente che trasformare il pendolarismo quotidiano in mono o bi-settimanale equivale a meno auto e meno mezzi pubblici in circolazione, ossia a un minor inquinamento atmosferico. Ma poterebbe portare, alla lunga, anche a un minor consumo del suolo. Una ridotta presenza fisica sui luoghi di lavoro, corrisponderebbe infatti, anche ad aziende a spazi ridotti e conseguentemente a una minor cementificazione. Pensiamo ai mega agglomerati dei centri direzionali, che certamente non scomparirebbero ma avrebbero necessità di superfici minori e potrebbero ospitare al proprio interno più aziende di quelle che ospitano attualmente.
Se proviamo a guardare ai benefici ambientali dello smart working in una prospettiva a lungo termine, è ragionevole prevedere che potrebbe portare anche ad un utilizzo più omogeneo del suolo ridisegnando un po’ la geografia abitativa. Dovendoci muovere con meno frequenza verso i luoghi di lavoro, corrispondenti di solito con la città, è immaginabile che diventerebbe più appetibile risiedere non solo nell’hinterland, ma anche nei borghi un po’ più lontani, più verdi e a misura d’uomo. Il tutto con notevoli vantaggi sul costo degli immobili, sia per chi decidesse di vivere in provincia, sia per chi continuasse a vivere in città, dove la diminuita domanda farebbe scendere i prezzi; tanto più che le stesse aziende richiederebbero spazi minori, liberandoli per il segmento residenziale. E contemporaneamente le case dei nonni in provincia, abbandonate e invendibili, potrebbero ripopolarsi e rivalutarsi.
Se questo è quello che potrebbe succedere in un futuro nemmeno troppo remoto, lo smart working è portatore anche di vantaggi economici immediati che vanno dal risparmio sul carburante o sull’abbonamento dei mezzi di trasporto, a quello del costo dei pranzi fuori casa per chi non gode di mensa o buoni pasto.
Non dimentichiamo poi i vantaggi per la salute: più ore di sonno, meno stress da pendolarismo, meno esposizione ai contagi su mezzi pubblici o in ufficio, meno pasti poco salutari fuori casa, meno corse affannose (che incrementano il livello di cortisolo) per riuscire a portare i figli a scuola e arrivare in tempo per timbrare il cartellino agli antipodi della città.
In sintesi, la qualità della vita migliorerebbe: ci sarebbe più tempo per coltivare qualche hobby, si potrebbe lavorare di più secondo i propri ritmi, dedicare più tempo alla famiglia e scegliere un po’ più liberamente dove vivere.
Arrivati a questo punto è però necessario ritoccare un po’ il quadro idilliaco appena raffigurato. Chi ad esempio avesse pensato di poter licenziare la babysitter o risparmiare la costosissima retta del nido, dovrà rivedere i progetti. Lavorare con un bambino intorno è praticamente impossibile, a meno che non sia fatto di pasta di sale. Abbiamo sentito mamme, che dopo aver lavorato da remoto in questi mesi con i figli in casa, darebbero qualsiasi cosa pur di tornare in ufficio.
Anche il risparmio sui costi di viaggio, lavorando da casa, sarebbe in parte compensato da un aumento delle bollette. E i benefici per la salute della cucina casalinga, potrebbero essere vanificati, per i meno dotati di forza di volontà, dalle continue incursioni al frigorifero. Senza contare che i fumatori, se al lavoro sono frenati dalla necessità di uscire per accendersi la sigaretta, in casa non avrebbero limiti.
Per capire quanto le potenzialità teoriche del lavoro agile coincidano con quelle reali, abbiamo voluto ascoltare le testimonianze dirette di chi, nei mesi di emergenza sanitaria, ha lavorato con questa modalità e, in qualche caso, lo sta ancora facendo o tornerà a farlo a breve. Tra le tante storie abbiamo selezionato dei profili particolarmente significativi, ossia quelli risultati più obiettivi in quanto, le condizioni in cui si sono trovati a operare non sono state particolarmente influenzate dalla situazione creatasi durante la pandemia, e conseguentemente quelle future non saranno molto diverse
Esperienze di smart working
Marco, 38 anni, manager in un ufficio acquisti della GDO e pendolare tra la città e un paese dell’hinterland, è il più incline a promuovere a pieni voti l’esperienza. “In condizioni normali il mio lavoro si potrebbe svolgere per l’85% da remoto. Rispetto al lavoro in ufficio dove una parte del tempo se ne va in convenevoli con i clienti, ho sicuramente ottimizzato il tempo e migliorato la produttività. Anche a livello personale ho riscontrato solo benefici. Soprattutto in una città come Milano, dove sembra che non fai niente se non ti fermi fino a tardi in ufficio, magari ciondolando alla scrivania durante il giorno facendo finta di lavorare, lo smart working mi permette di raggiungere certi obbiettivi con i miei tempi, e poter sfruttare le ore che avanzano per la vita privata. Mi ha anche permesso di intravedere la possibilità di costruirmi una famiglia, nonostante sia io che la mia compagna non abbiamo la rete di supporto di nonni o altri famigliari. Lavorando in maniera flessibile, magari alternandoci a stare a casa qualche giorno a settimana, avremmo la possibilità di andare a prendere dei futuri figli a scuola, portarli al corso di nuoto, insomma essere presenti nelle loro vite. Non parliamo poi del fatto di non dover affrontare tutti i giorni la tangenziale nelle ore di punta, sia all’andata che al ritorno! Resta molto più tempo per dedicarsi ad attività extralavorative in maniera rilassata. Ad esempio ero abituato, nei giorni in cui avevo il corso serale di inglese, a tornare a casa, mangiare in fretta e male e precipitarmi in classe. Lavorando in smart working non è più così”.
Invece Valerio, 54 anni, è sviluppatore di software per una grande multinazionale a 500 chilometri da casa. Per lui lavorare da remoto non è stata una novità. Già prima del lockdown riservava un giorno alla settimana alla stesura di quelle relazioni che possono essere scritte tranquillamente da casa. Questo gli permetteva di anticipare il rientro e passare un giorno in più con la famiglia. “Per me che facevo il pendolare settimanale sulla lunga distanza, inizialmente la possibilità di lavorare da casa è stata una grande liberazione. Non doversi svegliare il lunedì notte alle 3 e mettersi in macchina è stata una novità positiva. Dal punto di vista lavorativo mi ha dato lo stimolo a lavorare a testa bassa. Per me, che di mestiere sviluppo software, avere ore e ore al giorno da solo, senza le interruzioni dei colleghi che chiedono, le riunioni inutili, le trasferte, mi ha permesso di mettere in pratica delle idee che covavo da tempo. Ho passato il primo mese sui miei software riuscendo a svilupparne parti importanti e complesse. Da casa la produttività è molto alta. Per contro anche le ore lavorate: quando, ad esempio, il capo ti chiede in orari in cui normalmente non ti troveresti in ufficio, di preparargli la presentazione per l’indomani e tu sei costretto a lavorare dopo cena. Altri svantaggi? Le riunioni, che nel mio caso non sono state molte, hanno creato problemi tecnici. Si passava almeno metà del tempo a ripetere frasi che non si erano capite. Cose che in ufficio si potevano risolvere con un incontro in corridoio di due minuti. In prospettiva l’idea di fare alternanze di una settimana in ufficio e una a casa, sarebbe sia lavorativamente che personalmente una gran cosa. Devo dire che se anziché a 500, lavorassi a 10 chilometri da casa, non avrei dubbi: meglio andare in ufficio. Mi è mancato l’incontrarsi alla macchina del caffè, scambiarsi la battuta coi colleghi, confrontarsi in maniera informale”.
Saverio, 53 anni, è consulente finanziario per una banca. “Dico subito che lavoro a dieci minuti da casa. Mi basta una passeggiata per essere in ufficio e anche per tornare a pranzo. Quindi lavorare da casa non mi ha risparmiato chissà quali viaggi massacranti. Aggiungo che il mio lavoro, un po’ smart lo era già prima dell’emergenza sanitaria, nel senso che mi capita di lasciare qualche volta l’ufficio per andare dal cliente che non può muoversi, e anche di non stare lì col cronometro in mano senza aver concluso le cose che ho iniziato. Però il mio lavoro è fatto soprattutto di persone, che incontro e mi comunicano delle cose col linguaggio del corpo, o che di persona interagiscono in modo diverso da quanto non facciano al telefono o in videoconferenza. Altra criticità riscontrata è la difficoltà a concentrarmi, da casa, nonostante disponga di uno studio attrezzato che mi garantisce il massimo della privacy. Per finire, da casa, le ore lavorate finiscono per essere di più. Anche in ufficio, come dicevo, non stai tanto a vedere. Magari le 6 diventano tranquillamente le 6.30 o più. Ma a casa diventano regolarmente le 8. Lavorare da remoto mi ha fatto molto rivalutare anche l’importanza di avere fisicamente vicino i colleghi e mi ha fatto capacitare di quanto sia importante la sinergia che si crea quando condividi l’ambiente lavorativo, a cominciare da quella che è la chiacchiera informale – attinente al lavoro – che fai quando sei nello stesso spazio, magari in pausa caffè, e a cui magari rinunci se devi prendere il telefono e chiamare. Di conseguenza mi viene anche da temere che nel tempo, si possa arrivare a una perdita di forza contrattuale, o a ridurre le rivendicazioni (legittime) nei confronti dell’azienda. Magari il problema che esterni, tra colleghi, nella famosa pausa caffè, lo tieni per te se ti trovi a lavorare da casa. Non credo che sia un’ansia ingiustificata se pensiamo che diverse aziende hanno abolito già i buoni pasto, senza compensarlo con un ‘bonus bolletta’. Se poi ci aggiungi che lo smart working, nella sua perfetta applicazione, tende a darti un’impostazione più da freelance che da dipendente, si creerebbe la situazione ideale per applicare la strategia di Cesare ‘divide et impera’. Tra l’altro il fatto che molte aziende stanno esaltando l’aumento di produttività riscontrato, porta a pensare che potrebbe anche verificarsi una contrazione della domanda di lavoro”.
Boccia assolutamente il lavoro da remoto, Eleonora, 38 anni, che lavora per una società di consulenza a meno di mezz’ora da casa. “Se escludiamo le trasferte dai clienti, il lavoro che faccio in ufficio potrei farlo tranquillamente da casa. Non ho trovato alcuna difficoltà oggettiva a lavorare da remoto. Ho accesso a tutti i documenti che mi servono. Quello che invece mi mette in difficoltà è la sensazione di perdita dell’identità aziendale, del senso di appartenenza a una squadra. Sono abituata a lavorare in team, e nonostante le diverse possibilità di entrare in contatto, sentirsi e vedersi coi colleghi, lavorare da remoto mi dà la sensazione di un ‘one man show’. Mi manca molto il confronto. A casa, poi, le distrazioni sono maggiori. C’è più difficoltà a concentrarsi. Quanto alla maggiore disponibilità di tempo libero, alla fine, la mancanza di vincoli di orario si traduce in un prolungamento delle ore lavorate”.
L’intervista allo psicologo del lavoro
Come fare in modo allora, che il lavoro agile diventi fonte di benefici a 360 gradi? Come superare le difficoltà che i nostri intervistati hanno evidenziato e quelle che, a livello sociale e individuale, potrebbero prodursi col tempo? Lo abbiamo chiesto a Claudio Magni, psicologo del lavoro, HR Consultant e a.d. della Mistral Consulting di Milano.
Uno degli aspetti negativi che sono stati evidenziati lavorando da casa è stata la perdita dello spirito di squadra. Come possiamo intervenire per fare in modo che questo non succeda?
Innanzi tutto va premesso che quando si parla di smart working ci si riferisce spesso solo al lavoro da casa. Questo succedeva anche prima del Covid. Poi con il lockdown, in fretta e furia, tanti hanno dovuto adattarsi al lavoro da casa, senza nessuna esperienza organizzativa. E chiaro che questo non è smart working. Tanti difetti del telelavoro, compresa la perdita del concetto di squadra, sono legati molto alla modalità con cui eserciti il lavoro quando questo si trova a prescindere da una sede fisica comune. Di per sé, il responsabile, non è lo smart working. Di soluzioni per ovviare al problema ce ne sono tantissime. Ad esempio nella mia società, come in altre, ci sono momenti in cui ci si vede, si creano delle stanze virtuali, la sala caffè: ognuno è a casa propria, ma c’è una condivisione. Tanti strumenti come Teams o altre piattaforme, nascono come strumenti, prima di tutto, di collaboration. Servono per lavorare insieme, per condividere documenti e per condividere momenti. Usando correttamente gli strumenti di lavoro di cui si dispone oggi, il problema della mancanza di spirito di squadra non si pone. Paradossalmente, e l’ho visto nella mia azienda, ma anche in aziende clienti, lo smart working è diventato lo strumento per creare maggior coesione. Se prendiamo le aziende di grandi dimensioni, le persone tendono a lavorare per compartimenti stagni e il concetto di squadra è relativo perché si creano tanti piccoli gruppi, spesso in contrapposizione tra loro, per quante sono le funzioni. Usare degli strumenti di collaboration in maniera intelligente ha permesso alle aziende di aumentare la coesione tra gruppi distinti, il senso di appartenenza, perché si creano delle virtual room in cui si mischiano le funzioni. Se invece ti limiti a mollare gli strumenti senza regole di utilizzo, il contraltare può portare al problema che alcuni smart workers hanno rilevato, ossia quel senso di isolamento.
Il primo passo dovrebbe essere definire quali attività possono essere efficacemente svolte da remoto, perché se per alcune è materialmente possibile, magari non è comunque la situazione ideale. In secondo luogo bisognerebbe capire quali sono gli obiettivi, creare dei team e stabilire delle regole di condivisione. Dopo di che ognuno dovrebbe essere messo nella condizione di organizzare con maggior libertà di prima il proprio lavoro, anche in termini di orario, e il controllo dovrebbe essere finalizzato esclusivamente ai risultati raggiunti. Lavorare in remoto e pretendere di replicare esattamente le stesse logiche che c’erano in ufficio non ha senso. Si perdono i vantaggi e si acuiscono gli svantaggi.
Uno di questi svantaggi che alcuni ci hanno riportato è un aumento delle ore di lavoro…
Questo è dovuto, da una parte, all’incapacità di utilizzo al meglio gli strumenti a disposizione: è chiaro che stai 12 ore davanti al computer a lavorare, se quando fai una riunione online ci metti 40 minuti prima di iniziare perché uno ha il microfono spento, l’altro ha problemi di inquadratura o perdi tempo in altri modi. Dall’altra c’è l’incapacità organizzativa dell’azienda, a formare adeguatamente ma soprattutto a fissare obiettivi sensati preoccupandosi semplicemente che questi obiettivi vengano raggiunti, anziché monitorare continuamente come il dipendente li raggiunge. Alcune aziende hanno investito soldi ed energie nell’acquisto di app per la timbratura del cartellino, e ancora peggio in software che permettono di monitorare cosa abbia fatto il dipendente da casa minuto per minuto. Non è questo lo smart working. Questo è semplicemente aver spostato l’ufficio a casa. Fissare obiettivi sensati non è così semplice. Ci vuole capacità, compresa quella di saper gestire il lavoro da remoto e capire che è qualcosa di completamente diverso. Se il dipendente sta lavorando da casa e in quel momento la casa si allaga, devo capire che non succede niente se quello si alza e raccoglie l’acqua. Con lo smart working viene ridefinito il ruolo del capo, che non deve più essere di controllo, ma di coordinamento e di supporto. Si potrebbe arrivare ad un punto in cui, lavorando da casa, vuoi perché non ci si deve spostare, vuoi perché ci si concentra di più, si raggiunga un grado di efficienza tale per cui il lavoro che prima si faceva in otto ore, lo si farà, ad esempio, in quattro. Quale sarà l’atteggiamento dell’azienda? Si accontenterà di ottenere i risultati che il dipendente svolgeva prima in più tempo, oppure pretenderà, se prima in otto ore otteneva A+B, di aggiungere anche C, K e L? Si dovrebbe arrivare, prima o poi a un revisione degli statuti contrattuali. Oggi semplicemente il datore di lavoro tende ad applicare gli strumenti che ha, a un contesto che è cambiato. Dall’altra parte ci sono i sindacati che negoziano solo sulle tutele senza uscire dagli schemi. Il primo concetto, quando si è normato il lavoro agile, ad essere considerato inderogabile, è stato il cosiddetto “diritto alla disconnessione”. Ad esempio puoi disconnetterti per pranzare e il datore di lavoro non può opporsi. Ma se non fai un’operazione di cambiamento culturale queste cose non servono. Metti che domani la tua azienda si trovi nella necessità di fare una riunione da mezzogiorno alle 3 del pomeriggio. Chi si tirerebbe indietro solo perché deve pranzare? Però si dovrebbe essere liberi di dire “Sai che c’è? C’è che alle 3, quando finisce la riunione, io chiudo e me ne vado al mare (se abito in una città di mare)”. Il La svolta epocale dello smart working sarebbe passare da un concetto di retribuzione del tempo, a uno di retribuzione del lavoro.
Diversi ci hanno segnalato, lavorando da casa, problemi di concentrazione. Pur essendo soggettivo c’è un consiglio che si possa dare a chi ha questo problema?
Ci sarebbero delle regole che sono considerate universali, che sono anche quelle che credo tutti conoscano, come fare delle pause o non usare più di un device alla volta, avere la sedia ergonomica o uno spazio tranquillo della casa e così via. Ma non esiste una ricetta per concentrarsi che vada bene per tutti. Le soluzioni sono individuali. Ad esempio una cosa su cui tutti quelli che scrivono questi decaloghi concordano, è che non si debba lavorare dal divano. Perché? Se uno lavora bene dal divano, si concentra, è da lì che deve lavorare. Ci sono studi scientifici che hanno accertato che il tempo dell’attenzione varia dai 45 ai 60 minuti. Secondo me non è vero. Nell’epoca del digitale credo che la nostra capacità di attenzione reale di fronte ad un compito o a una conversazione, si sia ridotta tantissimo. Riusciamo ad ascoltare con attenzione solo pochi minuti. Questo ha sicuramente delle implicazioni negative sul lavoro da remoto. Facciamo già fatica ad ascoltare quando la presenza fisica è reale. In videoconferenza diminuisce l’attenzione; se poi siamo in videoconferenza in tanti, diventa un disastro. Quindi vanno bene le regole, ma non bastano; è la mentalità che deve cambiare. Attualmente c’è un po’ un’identificazione del ruolo col luogo, c’è una profonda dicotomia tra quello che siamo come persone e chi siamo come lavoratori come se fossimo due persone diverse. Questo potrebbe non farci percepire la casa come il luogo di lavoro impedendoci di concentrarci. La strada da intraprendere è quella di abolire questa distinzione e diventare persone sul lavoro, e lavoratori nella vita personale.
È logico ipotizzare, che se in un domani ci si continuerà ad alternare tra casa e azienda, si ridurranno gli attuali spazi di lavoro e si potrebbe arrivare una sorta di “desk sharing”, la condivisione della postazione per cui il singolo lavoratore non avrà più la propria scrivania con la foto dei figli, il cactus e i gadget personali. La “spersonalizzazione” degli spazi potrebbe diminuire il senso di appartenenza a un’azienda e creare magari delle crisi identitarie?
È un aspetto da considerare, ma la risposta, legandola a tutto quello che abbiamo detto in precedenza, dovrebbe essere “no”. Intanto esistono già delle aziende in cui questo è il quotidiano. Se vai in alcune aziende all’avanguardia, soprattutto nel settore IT, è già sparito il concetto di “la mia scrivania”. Ma deve essere un cambiamento culturale profondo. Non si può ridurre tutto il cambiamento a “fai quello che facevi prima ma senza scrivania”. Si tratta, come già si diceva, di concentrarsi sul “compito”, vale a dire: io non sono dipendente dell’azienda Pinco Pallino Spa, non perché ho il badge aziendale ma perché sto seguendo un progetto con Tizio e tra due mesi devo presentarlo alla direzione. Per cui mi sento parte di Pinco Pallino SpA e contemporaneamente mi sento anche (concettualmente) un libero professionista chiamato a dare il proprio contributo. Quello della personalizzazione del luogo di lavoro per me è un tema importante. Ci sono delle aziende in cui vige un codice rigidissimo su cosa puoi mettere e cosa no sulla scrivania. Io ho sempre pensato che personalizzare uno spazio di lavoro sia una cosa utile perché ti fa sentire che puoi esprimere qualcosa in più di te stesso. Di conseguenza mi sono posto questo interrogativo. E la risposta che mi sono dato è che in fondo abbiamo tante occasioni per personalizzare i luoghi che ci circondano. Se mi troverò, domani, a lavorare in formula mista, avrà molto risalto il tempo in cui lavorerò da casa, dove potrò personalizzare al massimo il mio spazio di lavoro, e forse col tempo sparirà quell’ossessione che c’è stata in questi mesi per gli sfondi delle videocall, che è anche un modo per non fare entrare l’altro in casa tua; un paradosso, se pensi che in ufficio tenevi i pupazzetti sulla scrivania e ci tenevi a personalizzare, mentre a casa vuoi nascondere tutto. Quindi se si arriverà a cambiare questa mentalità, poco male se in ufficio non avremo più la scrivania “customizzata”.
Uno dei potenziali benefici dello smart working, una volta entrato a regime e messa a punto la “best practice”, dovrebbe essere quello di lasciarci più tempo libero. Saremo in grado di sfruttare questo tempo per dedicarlo a quella socialità che oggi i ritmi serrati ci precludono? Oppure si creerà un’assuefazione al lavoro in solitaria che ci farà rinchiudere ancora di più in noi stessi anche nella vita privata?
Recentemente c’è stato chi ha parlato di un “effetto caverna” che dovrebbe colpire chi lavora da casa. Potrebbe capitare a persone totalmente disadattate, che magari se stanno in casa non si lavano neanche più, non escono più e non hanno più relazioni sociali. In realtà si è visto che anche durante il lockdown, ossia una situazione di isolamento estremo, abbiamo cercato tutti di mantenere una socialità elevata (e questo lo dicono i dati del traffico web). Sarà anche un tipo di socialità diversa ma da venti anni a questa parte ci sono persone che si sposano con la persona conosciuta sul web, che vengono assunte con colloqui fatti sul web e così via. La socialità è innata. Non si perde. Siamo animali sociali. Piuttosto io ho la ferma convinzione che la socialità tornerà ad essere più simile a quella che era una volta, perché tu a mezzogiorno, anziché andare a mangiare un panino coi colleghi nel bar del centro, scendi a quello sotto casa, dove incontri il vicino con cui magari fino a poco fa litigavi soltanto, e adesso invece approfitti per trovare il compromesso. Si tornerà a vivere di più il proprio quartiere, ci si parlerà di più. Io credo che sarà un’occasione per far rifiorire il commercio anche fuori dal centro.
I luoghi di lavoro sono, il più delle volte, sede di micro o macro conflittualità tra colleghi. Al di là dello stress che questo può provocare, costituiscono comunque delle ottime palestre per allenarsi a gestire il dissenso, che è comunque qualcosa di fisiologico nelle nostre vite. Rimuovere, col distanziamento, questo problema, può diventare a sua volta un problema? Ossia ci renderà incapaci, col tempo, di esprimere il dissenso in modo sano anche nella vita privata?
Dal mio punto di vista, più che un problema, questa sarebbe un’occasione straordinaria di intervento. Avendo eliminato il “pericolo” aumenta la percezione dell’individuo che da una parte si sente sollevato nel non avere più il collega o il capo che gli fa mobbing, e capisce a cosa era dovuto il malessere del dover andare in ufficio. Questo dovrebbe essere non il punto di arrivo ma di partenza. Cogliamo quest’occasione perché diventi un’opportunità di crescita. Per l’individuo può diventare l’occasione per trovare delle risposte, per capire come gestire queste situazioni (non nel senso di “affinare gli artigli”), per rendersi conto che capita di trovasi in circostanze difficili e che bisogna imparare a gestirle. Questo dovrebbe essere proprio il vero compito delle Risorse Umane, il cui altro compito, dal lato opposto, dovrebbe essere quello di lavorare in azienda sui soggetti che determinavano quella situazioni e farle diventare un’occasione di condivisione.